Pietro Pancrazi «Studi sul D’Annunzio» (1939)

Recensione a Pietro Pancrazi, Studi sul D’Annunzio (Torino, Einaudi, 1939), «Leonardo», a. X, n. 10, Roma, ottobre 1939, pp. 320-322.

PIETRO PANCRAZI «Studi sul D’Annunzio»

Il cerchio che racchiude questi saggi («scrittarelli dannunziani» li chiama l’autore) e li unifica piacevolmente è la intelligente bonarietà del Pancrazi, la sua sicura e toscana attenzione di buongustaio che, se non ama risolvere il problema critico affrontandolo decisamente, lo investe di tale sua atmosfera e lo fa germogliare in tranquille, ma perentorie equivalenze discorsive. Questa volta poi una lettera dedicatoria al Calamandrei dà il tono e l’accento al volume con una perizia e una coincidenza elegantissime. È il racconto di una gita in Casentino durante i giorni successivi alla morte di D’Annunzio e di come il paesaggio casentinese riporti gli amici letterati al poeta vivo, alla grande poesia dell’Alcyone che ivi ebbe la sua stesura, e soprattutto di come il ricordo di D’Annunzio abbia accresciuto il loro gusto delle cose, del paesaggio, della vita. «Quando fummo al valico e ci s’aperse d’un tratto alla vista tutta la valle del Casentino, dal Falterona al Pratomagno e laggiú alla Verna, con davanti il Giogo di Camaldoli e il Poggio Scali, e per le coste i fumetti delle carbonaie o delle pievi, e in basso, nella valle ancora in ombra, il Solano, l’Archiano e li ruscelletti che tra i loro pioppi vanno a finire in Arno a spina di pesce, e le case del Borgo alla Collina di Poppi e di Bibbiena, rilevate dall’ombra in una luce piú chiara... appena s’ebbe davanti quel paesaggio cosí domestico, ma cosí aperto, risentito come una ossatura e cosí poetico... cosí senza altra ragione, D’Annunzio anche in noi cominciò a cantare».

È in questa aria che vanno letti gli articoli del Pancrazi, l’aria che a noi in questo momento meno ci spiace, convinti come siamo che il nostro amore a D’Annunzio deve rinascere fuori del problema schematico e distintivo spazialmente ormai esaurito. Fuori come siamo da ogni possibile dannunzianesimo e da ogni disprezzo facile e negatore («E taluno si vantò di non aver letto mai il D’Annunzio!») sentiamo anche quanto il nostro senso della natura sia stato da D’Annunzio arricchito, quanto egli ci abbia richiamato al senso creativo, creatività totale, dopo l’intermezzo culturale carducciano.

In questo momento che non è la ripetizione del momento della prima valutazione dell’Alcyone, del mondo naturalistico, ma di un accordo poetico che passa anche nelle prose del Notturno, nei grandi miti di melodie sfatte e silenziose, il tono del Pancrazi ci stimola al riesame non programmatico, polemico, della nostra aderenza a D’Annunzio.

Naturalmente tale volontà d’atteggiamento è già qualcosa di diverso dall’atteggiamento pancraziano che non vuole concludere, che si compiace dei suoi studi “elittici”, anche se poi in realtà come sempre il critico non può non porsi come critico effettivo, totale.

Questi studi dannunziani si incentrano dunque sulla valutazione del poeta per quello che ci ha donato: «D’Annunzio ha arricchito il nostro piacere di vivere. D’Annunzio fu il piú grande celebratore della nostra terra e delle sue stagioni. E meglio che tra gli uomini che spesso stimolarono i suoi umori meno buoni, questo è poeta che vuole essere ricordato oggi sulla natura che, ai dí felici, egli amò riamato come i poeti maggiori». «Poesia che nasce sempre fuori della presenza degli uomini e in faccia alla natura, quando D’Annunzio è piú solo e, anche di fronte a sé, può dimettere piú del suo fasto». Cosí nel Ricordo di D’Annunzio che poi scorre placidamente su binari già conosciuti, rinnovati solo da questo primo tono: la mancanza di vero sviluppo in D’Annunzio, la sua irrazionalità ed acrisia, la sua cultura non cultura perché senza vere preferenze motivate, la sua funzione europea e d’altra parte la presenza dell’Alcyone anche nella poesia contemporanea.

Un posto a sé merita il capitolo sulle prime prose esaminate dal punto di vista dello stato sperimentale con cui D’Annunzio le concepí in reazione col suo piú vero sottosuolo :l’uso sforzato del discorso indiretto verghiano in Terra vergine, l’attenzione alle Cronache romane (cioè gli articoli raccolti nelle Pagine disperse, a cura di A. Castelli) che portano tentativi stilistici piú differenti e sulla nascita della prosa notturna, cioè della prosa allusiva, esoterica, iniziata col Forse che sí, sviluppata nella Leda, e culminata nel Notturno di cui si ritrovano, ma troppo ingegnosamente, accenni in alcuni pezzi delle cronache romane.

(E del resto anche questa possibilità notturna era da ritrovarsi nell’atteggiamento fondamentale del D’A. solo apparentemente biforcato (barbarie e candore), in realtà unico nella sua radice di religiosità indiscriminata.)

Il nucleo piú sostanziale e impegnativo, circostanziatamente critico, dovrebbe essere rappresentato dal capitolo «Nell’officina dell’Alcyone», che si divide in due parti: «le felici poesie e la strofa alcionica». Ci piace, anche in coerenza con quanto abbiamo detto dell’introduzione, l’ambientazione delle poesie dell’Alcyone (perpetuum carmen piú che raccolta di liriche) nell’aria di Romena (e noi che per tanto tempo, malgrado i documenti, godemmo a immaginarci l’Alcyone concepito, ma anche steso presso il Tirreno ed ora vediamo meglio in questa distanza, in questa maggiore chiarezza di un clima che attenua e già materialmente distanzia l’affocata pienezza del litorale tirrenico) la constatazione dell’immediatezza di scrittura seguita sugli autografi posseduti dal sen. Borletti. Ma lo svolgimento di questa giusta impressione nell’esame dei manoscritti (e troppa importanza agli impeti grafici), pur arrivando, per la Morte del cervo, ad una conclusione che completamente accettiamo («Tuttavia l’impressione dei lettori piú delicati che, ammirando questa poesia, non vollero però includerla nel “loro” D’Annunzio, allo studio di come la poesia nacque, in qualche modo si convalida. C’è a tratti, poi, un turgore plastico che non è tutto potenza; e l’origine di questa poesia è troppo fisiologica perché non ne sia un po’ grossa la vena») si esime troppo dall’esame riducendosi ad una semplice presentazione dell’autografo. E troppo volentieri esita ai margini su particolari che per un D’Annunzio non ci commuovono troppo: «A dir tutto, in calce a queste belle poesie di D’Annunzio ci piacciono anche le date, spesso inaspettatamente segnate con le loro domeniche e il loro santo, in un modo cosí paesano e casalingo». Cosí pure abile piú che convincente il legame che il Pancrazi trova fra Alcyone e Notturno mediante una pagina del Secondo amante di Lucrezia Buti eccessivamente travestita esotericamente: piú soluzione brillante che verità critica.

Su “L’amoroso D’Annunzio” è notevole l’accenno, attraverso le lettere a Barbara, ad un D’Annunzio piú amabile, non ancora rinchiuso nella sua sigla fastosa, ricco di “delicatezze, malinconie, e nebbie, persino si direbbe, da buon figliuolo”.

Dall’esame del Solus ad solam non ci interessa tanto una certa indulgenza all’umanità dello scrittore, quanto l’uso che il Pancrazi fa di questo libro per avere uno spiraglio sul segreto del poeta. Perché qui il D’Annunzio è meno sorvegliato, piú ingenuo anche nel suo brutto, sí che motivi piú lontani sembrano avvicinarsi, coesistere: «In questi quaderni che furono scritti l’anno dopo la Nave (1908) vedi stingersi i colori piú frusti del Piacere (1889) e senti alitare il piú vibrato Notturno (1921), tre punti (e tre date), che fissati ognun per sé, e con tanta vita tra mezzo, sembrerebbero cosí lontani nel panorama di D’Annunzio!».

È, in conclusione, l’atteggiamento attento e pure abbandonato del Pancrazi nei riguardi del D’Annunzio che noi piú volentieri approviamo, e il calore in questo senso unitario del libro.